Quando il governo dell’economia sfugge al mercato

Il Sole 24 Ore 

Quando il governo dell’economia sfugge al mercato

 

L’analisi del presidente di Confindustria Antonio D’Amato sullo stato del capitalismo in Italia riferisce accadimenti e indica prospettive, con le parole di chi vive l’esperienza sulla propria pelle. La mia riflessione vuol riproporre questi temi sul piano accademico. Quando, alla fine degli anni 80, la globalizzazione impose un ripensamento nel governo dell’economia del Paese, tra gli addetti ai lavori si profilò la sostituzione dello Stato azionista con un sistema che veniva ricondotto al capitalismo renano, perché articolato sulle banche secondo l’esperienza germanica. CONTINUA A PAG. 10. DALLA PRIMA PAGINA A questo fine si doveva reintrodurre la banca mista, autorizzata ad assumere partecipazioni influenti in imprese commerciali, e si doveva accentuare la dipendenza dal mercato mobiliare, cioè dalla raccolta diretta del risparmio, dalla banca, facendone la componente di un unico affare nella banca universale. Così si è fatto. Oggi le banche hanno influenti partecipazioni nelle maggiori imprese, hanno il monopolio di fatto del mercato mobiliare: persino la società che gestisce la borsa è delle banche. Ma nella versione italiana il capitalismo renano si è fatto dirigismo. Il risanamento delle banche, alcune delle quali versavano in grave crisi, le ha concentrate in pochi gruppi, e per di più collegati da incroci azionari. Sul loro assetto proprietario la Vigilanza ha il controllo di merito. Nella composizione del loro capitale troviamo quella figura ibrida che sono le fondazioni bancarie, vigilate dal Tesoro, ma praticamente senza padrone, certamente non dipendenti dal capitale di privati. Vediamo poi che al Garante della concorrenza è sottratta la competenza sulle banche, riconosciuta alla stessa Vigilanza per graduare la concorrenza alla stabilità. Ma gli obiettivi, se gestiti dalla stessa Autorità, sono inconciliabili. Perciò nei fatti la stabilità del sistema è divenuta stabilità delle singole imprese. Ecco che nelle maglie della regolamentazione i gruppi sono trattenuti come in un cartello. Regolare il cartello è governare la finanza. A loro volta i gruppi, nel partecipare alle maggiori imprese commerciali, le conducono sotto l’influenza della Vigilanza, sicchè per il tramite del sistema bancario si ottiene il governo delle imprese. Ed è il governo di una economia diretta, mista. L’iniziativa delle singole unità è coordinata, i rischi sono reciprocamente traslati, le responsabilità sono anonime, i costi sono riversati in modo indifferenziato sull’economia. Le crisi gestite nei salotti buoni sono opache, non si rivelano o si rivelano tardi, sono ostacolate, per difficoltà di prova, le responsabilità di ordine civile, la cui presenza è segno di mercato. L’immobilizzazione del capitale avvilisce la competitività e l’innovazione, come nell’ultimo periodo elle partecipazioni statali.vChissà quanti costi, quante responsabilità, copre il luogo comune della stabilità. Non è la sofisticazione, ma la grossolanità del diritto che ostacola il verificarsi in Italia di crisi di legalità del tipo Enron-Andersen. Negli Usa è in corso un processo di ristrutturazione, dove chi ha agito nella legalità si trova in vantaggio di fronte al concorrente, sommerso dalle azioni di danno per infedele revisione contabile e per conflitto d’interesse degli analisti. Non soltanto il capitalismo italiano non è privatizzato, a ben vedere non è nemmeno diretto dallo Stato. Propriamente non è né carne né pesce. Poiché il sistema bancario è autoreferenziale, la Vigilanza, al vertice, ne è l’esponente di governo. Perciò avrebbe dovuto essere separata dalla Banca d’Italia, divenuta nel frattempo indipendente come componente del sistema monetario europeo. Invece la competenza è rimasta. Sicchè le banche sono ordinate in corporazione sottratta al Governo e al Parlamento. Per la legittimità democratica la direzione del capitalismo italiano è acefala. E’ il vuoto della Politica, con la P maiuscola, che ha permesso che questo accadesse. Con l’eludere la Politica, la risposta degli apparati tecnici all’economia globale è stata facile, senza affrontare il dolore di andare davvero al mercato. L’euforia finanziaria ha agevolato le cose. Ma la risposta è quanto mai discordante con gli imperativi dell’economia globale. Il mercato potrà riassumere il ruolo di governo dell’economia se saranno resi pienamente operativi gli istituti della concorrenza e del fallimento. Abbinati, consentiranno di imputare ai privati, alle unità private, l’iniziativa, le responsabilità e i rischi, per dare al capitale la mobilità, urgente quanto la mobilità del lavoro: ricordiamoci la funzione etica del fallimento nelle economie di mercato. Condivido che in questo progetto è centrale il rinnovo del sistema finanziario. Statuto della Banca d’Italia, separazione della Vigilanza, nuove regole che facciano sostanzialmente private le fondazioni bancarie, soppressione della banca mista, affidamento all’Autorità Garante della competenza anche per la concorrenza tra banche, separazione del mercato mobiliare, per rendere concorrenti raccolta diretta e indiretta a vantaggio delle imprese, e per regolare i conflitti d’interesse, diffusa azionabilità a difesa della legalità, fallimento. E’ la sofisticazione del diritto e delle istituzioni che danno al sistema liberale stabilità, pur nell’instabilità di ciascuna unità, stimolata all’innovazione della competizione. Soltanto l’Autorità politica capace in proprio di progetto e di gestione può affrontare i cambiamenti. Ma l’Autorità si forma se è diffusa la cultura del progetto: sono gli uomini colti che interpretano la Politica e fanno la qualità delle istituzioni del Paese. Oggi i politici, come persone, sono nuovi, e così i partiti. Ma la cultura è comodamente invischiata nei luoghi comuni della tradizione. Ben venga lo stimolo della Confindustria. GUSTAVO VISENTINI
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